La spedizione in Namibia del 1986
Hendrik Feddersen (HF): Tutto cominciò nel seminterrato del centro geofisico, quando il prof. Furia annunciò che si doveva fare una spedizione nell’emisfero australe per osservare la cometa di Halley nel suo massimo splendore. Puntò il dito sul mappamondo nel centro dell’Australia, su Alice Springs: lì è molto secco, un buon posto per l’osservazione. Un po’ a sorpresa replicai che avevo uno zio, Ludwig Feddersen, che negli anni cinquanta era emigrato in Namibia e che certamente sarebbe stato lieto di ospitarci. Rispose che era un’ottima idea, e scrissi subito allo zio.
Paolo Battaini (PB): La spedizione era composta dal prof. Furia, dall’ing. Augusto Binda e sua moglie Carla Tamborini (con lunga esperienza di lavoro in Africa), da Paolo Battaini e da Hendrik Feddersen. Fu organizzata con grande cura. Il professore ottenne un contributo del Credito Varesino per i biglietti aerei e il patrocinio dell’assessorato alla cultura del Comune di Varese. Alitalia e Sud Africa Air Line consentirono il trasporto in cabina delle apparecchiature scientifiche. Oltre alle collaborazioni e i trasferimenti, fu curato l’inventario di tutto il materiale per la dogana, per favorire rapidi trasferimenti nei vari scali. Esso fu a dir poco pignolo, ma la scelta fu lungimirante; al ritorno dalla Namibia incontrammo una spedizione che era incappata in problemi doganali. La strumentazione era costituita da un telescopio Schmidt Cassegrain Celestron 8”, una camera Schmidt Celestron 5”, e una camera fotografica Hasselblad Zeiss. Inoltre avevamo il necessario per lo sviluppo dei negativi b/n. Ognuno aveva le cartine con le posizioni dell’astro rispetto alle costellazioni australi e rispetto all’orizzonte locale.
PB: Partimmo sabato 29 marzo 1986, col volo delle 18:30 per Roma e coincidenza per Città del Capo; era la vigilia del giorno di Pasqua.
HF: Durante il volo scrivemmo una lettera alla comunità rimasta a Varese per ringraziarli e ricordarli. Ripartimmo da Roma verso mezzanotte per risvegliarci sopra l’Egitto. Non si poteva sorvolare la Libia in quanto Gheddafi era considerato un nemico. Dopo molte ore vedemmo il Kilimangiaro dall’alto.
PB: Arrivammo a Città del Capo il giorno di Pasqua e, con un volo di altri 1300 km, giungemmo a Windhoek, capitale della Namibia. L’accoglienza fu calorosa. A casa della sig.ra Hannelore, cugina di Hendrik, ci offrirono per cena una grigliata di carni di antilope ed altre specialità locali.
HF: Il mattino seguente il professore scrisse un articolo sulla spedizione che Hans, mio cugino e capo redattore, fece subito pubblicare nell’Allgemeine Zeitung, unico giornale tedesco in Namibia. Poi il professore ci informò che la sua valigia era rimasta all’aeroporto: si era talmente preoccupato che tutto l’equipaggiamento fosse arrivato, che si era dimenticato di controllare la propria. Così ritornò in aeroporto con mio zio.
PB: Windhoek ci colpì per la straordinaria pulizia e modernità. Il giorno dopo partimmo per Karibib, distante circa 120~km da Windhoek, con il furgoncino di Ludwig Feddersen. L’autostrada rettilinea attraversava la savana, talvolta a ridosso di enormi termitai a forma di cono. Arrivammo nel primo pomeriggio e fummo ospitati dagli zii Gertrud e Ludwig per tutta la durata dei lavori. Parlavano solo tedesco e l’unico interprete era Hendrik. I cinque letti furono recuperati nella locale scuola tedesca.
HF: il cielo terso era azzurro scuro. Karibib era un villaggio di circa 400 case, ma tantissime erano vuote. Negli anni seguenti si riempiranno per l’apertura nelle vicinanze di una miniera d’oro.
Le notti della cometa
PB: Facemmo un sopralluogo alla ricerca di una postazione per i telescopi. Trovammo un’altura appena fuori Karibib, dove attendemmo il buio. La postazione sembrava ideale ma un improvviso temporale ci fece riflettere sull’opportunità di un riparo; inoltre Ludwig temeva la presenza di possibili malintenzionati. Fummo colpiti dall’aspetto delle nubi che, non riflettendo luci dal suolo, erano una cappa nera impenetrabile. La stagione delle piogge era al termine, e piovve solo quella sera e il giorno del ritorno. Il prof. decise di allestire il campo base nell’ampio spazio di terra battuta intorno a casa Feddersen. Era recintato e conteneva alcune spinose acacie; era abitato da grosse rumorose cicale nere. Il sig. Feddersen fece spegnere le uniche lampade vicine, e avvisò il servizio di sicurezza notturno di non passare coi fari accesi.
Il primo aprile Furia, Binda, Battaini e Hendrik tracciarono il meridiano e posizionarono gli strumenti. Li rivestirono di alluminio visto che non c’era modo di metterli in ombra. Gli zii di Hendrik assistevano interessati e offrivano bottiglie di una dissetante birra leggera, passata alla storia come la “birretta della Namibia”.
HF: Lo spettacolo notturno era incredibile. Nonostante avessimo studiato le costellazioni australi sui libri, era molto difficile orientarsi. Le costellazioni a noi note erano ovviamente capovolte. I passaggi nuvolosi oscuravano a tratti le stelle, e le nuvole erano nere come non le avevamo mai viste. Gli unici rumori erano i treni merci che passavano nella vicina ferrovia, carichi di minerali.
PB: Quella notte il cielo era velato da vapore e più tardi da nubi stratificate. Il nucleo della cometa fu avvistato a occhio nudo alle 21.50 U.T. tra le nuvole. Nei brevi momenti di sereno il seeing era ottimo. Una leggera brezza faceva vibrare lo strumento.
Nei giorni seguenti l’attività iniziava verso le ore 20 e terminava intorno alle 3.30 del mattino. La temperatura si manteneva tra 22 e 27 C, con umidità relativa prossima al 18%.
Nelle parole del prof. Furia un ricordo di quelle notti: Le notti furono dense di emozioni e di sorprendenti esperienze: il cielo australe è più ricco di ammassi stellari aperti e globulari. Sul piano galattico, tra la Croce del Sud, l’alfa e la beta del Centauro lo spettacolo superbo dell’adunamento astrale di Eta Carinae. Esiste qui un’enorme riserva di sorprese siderali. Qui brillano contemporaneamente a notte Sirio e Canopo, quassù allo zenit. Le costellazioni boreali sono capovolte, il Leone ruota da levante a ponente con le zampe in alto e la testa in giù. E’ qui che osservammo per la prima volta la Halley. L’astro ci apparve ad occhio nudo ma non fu lo spettacolo da molti promesso: magnitudine stimata attorno alla 3a il primo aprile, in presenza di Luna all’ultimo quarto, chioma molto espansa e nucleo invisibile, coda di circa 7 gradi di lunghezza. Nelle notti del 2, 3, 4 aprile abbiamo percepito un fatto non previsto dalle comunicazioni ufficiali: Halley perdeva rapidamente luminosità. La sera del 3 aprile era di 4-5a grandezza (ai limiti della visibilità ad occhio nudo) e così pure il 3 e il 4 la chioma svaniva vistosamente, fino a rivelare un nucleo puntiforme stellare; la coda raggiungeva appena un grado e mezzo.
Furia e Battaini si alternavano alla guida dello strumento, nell’esecuzione delle fotografie. Al termine Battaini sviluppava le fotografie in bianco e nero in un improvvisato laboratorio fotografico ricavato in un servizio igienico e oscurato con cartoni e sacchi neri dell’immondizia, e Furia redigeva il verbale. Già il primo giorno furono usate due coperte per schermare il telescopio dalle luci residue. Poi circondarono il telescopio di coperte fino a 2~m di altezza, cucite tra loro dalle signore Carla e Gertrude. Ciò anche allo scopo di ridurre le vibrazioni del telescopio causate dalla brezza persistente.
HF: Per piantare i pali, mio zio ci diede un aiutante di colore, ma quando il professore gli offrì una piccola mancia, questi si dileguò per bersela al bar.
PB: Un altro problema era la sabbia finissima che si depositava sulle ottiche, sollevata dal calpestio. Tentammo la soluzione di bagnare il terreno, ma l’operazione attirava nugoli di zanzare, inaspettate quanto mordaci, e l’apparecchio ad ultrasuoni di Binda risultò del tutto inefficace ad allontanarle. Durante il giorno osservavamo il Sole con l’apposito filtro; la totale assenza di macchie giustificava l’insignificante aspetto della coda e della chioma della cometa, come Furia aveva previsto.
La natura
L’attenzione si rivolgeva anche alla natura circostante, come la strana flora spontanea che si incontrava solo facendo pochi passi fuori dal recinto: piante che vivevano e fiorivano dentro la sabbia o si arrampicavano lungo acacie dalle spine lunghissime.
HF: Mio zio ci raccomandava spesso di indossare un berretto per il Sole. Ci raccontava di persone che si erano prese un’insolazione anche solo attraversando la strada senza copricapo. Il Sole picchiava veramente, e il cielo era molto trasparente. Preferimmo dedicarci alla flora nel tardo pomeriggio.
PB: un pomeriggio Furia decise che avrebbe cucinato un buon piatto per tutti. L’obiettivo, sostanzialmente irraggiungibile, erano le mitiche melanzane alla parmigiana. Visitammo il negozio di alimentari con l’idea di trovare il necessario: era piccolo e piuttosto sfornito, tranne che per lo scatolame, con etichette in tedesco. Trovammo solo una sorta di pasta spaghetti, un improbabile sugo di pomodoro e un pollo talmente vecchio che, secondo Furia, avrebbe dovuto per forza “fare buon brodo”. Alla sera si fece quello che fu possibile. Il sugo risultò essere ketchup e il cuoco (Furia) e la cuoca (Gertrude) non si intendevano a causa della lingua. Tuttavia fu una serata indimenticabile, complici anche le famose birrette. Qualche giorno dopo l’arrivo facemmo visita ad un gruppo di astrofili tedeschi stanziati a poche centinaia di metri dai Feddersen, anch’essi impegnati nell’osservazione della cometa.
Il gruppo si separò per alcuni giorni; mentre Furia e Battaini continuavano le osservazioni della cometa, Augusto, Carla e Hendrik raggiunsero il parco naturale di Etosha Pan, un immenso lago prosciugato ricco di animali e bellezze naturali, a circa 400 km a nord di Karibib. Vi entrarono a Okaukuejo, dove trascorsero la notte, uscendone sul lato ovest a Namutomi.
HF: In quel parco mio zio ci portò a vedere diverse pozze d’acqua a sud del grande lago salato, dove si raccoglievano gli animali selvatici per la siccità. Nel parco non era permesso di uscire dalla macchina. Poi passammo il lago Otjikoto e ci dirigemmo a Grootfontein per vedere il meteorite Hoba. A Otjiwarongo visitammo un allevamento di coccodrilli. Dopo una notte nella casa di mia cugina Henriette, a Outjo, siamo andati a vedere il Vingerklip, un monolito di 35 m di altezza la cui forma modellata dall’erosione ricorda quella di un immenso dito puntato verso il cielo. Il paesaggio circostante era simile a quello dei canyon americani. Prima di tornare a Karibib ci siamo ancora più addentrati nel Damaraland per visitare la foresta pietrificata di Khorixas. Le strade erano sterrate come nel parco Etosha; incontrammo grandi macchine che levigavano le strade in terra battuta. Augusto Binda aveva vissuto per tanti anni in Congo. Mi insegnò scherzando che i fiori si chiamano tutti “Sesaminga Officinalis” (“se sa minga” vuol dire “non si sa” in lombardo). A Karibib andammo tutti a visitare una ditta che lavora il marmo. Uno dei fornitori era una ditta italiana specializzata nella stampa di foto su porcellana, da mettere sulla tomba. Il marmista ci disse che gli Ovambo, che vivono al nord, sono molto affezionati a tale usanza.
PB: Dopo qualche giorno di riposo, guidati dal sig. Ludwig, effettuammo un’escursione a Swakopmund, cittadina sull’Atlantico, dove le dune del Namib raggiungono l’oceano. Lungo il viaggio di circa 150 km il panorama fu tipicamente desertico, con enormi dune di sabbia o il “paesaggio lunare” dal terribile aspetto di rocce bruciate dal Sole.
HF: Sembrava che non crescesse niente, ma lo zio ci portò a vedere una zona nel nord del Namib Naukluft dove c’erano diverse piante di Welwitschia mirabilis. In quel deserto caldissimo abbiamo visto un raro esemplare antico 1500 anni. La considerevole longevità è stata dimostrata con datazione al Carbonio 14. Si presenta come una grande matassa di nastri verdi, larghi fino a venti centimetri e lunghi anche cinque metri, attorcigliati e deposti sul suolo, con le estremità che progressivamente si sfilacciano, imbruniscono e muoiono.
PB: Di fronte a questa pianta restammo tutti in silenzio; si sentiva solo il verso di un serpente a sonagli nascosto tra le foglie. Il prof. Furia sapeva trasmettere a tutti, come spesso accadeva, il senso dell’infinito e dell’eterno che scaturisce dall’osservazione della natura. Poco dopo si allontanò dal gruppo e si fermò nella sabbia del deserto. Al suo ritorno disse: ho voluto andare là per un attimo, e ascoltare il silenzio del deserto.
All’orizzonte alcune montagne sembravano galleggiare sopra una distesa d’acqua. Lasciata la Welwitschia raggiungemmo Swakopmund, dove salimmo su una delle prime dune per osservare a est lo sterminato panorama delle enormi dune del Namib e, una ventina di metri più in basso, le onde dell’oceano. Visitammo un museo dedicato all’estrazione dell’uranio dalle locali miniere.
L’ultimo verbale di osservazione fu redatto nella notte dell’11 aprile. Il giorno successivo facemmo i pacchi e tornammo a Windhoek, ospiti del cugino Holger per la notte del 12 aprile. Il prof. Furia chiese più volte al sig. Ludwig di visitare i quartieri della popolazione di colore, ma non fu mai accontentato per motivi di sicurezza, anche se lo chiedeva solo per se stesso. In Namibia vigeva una forma di apartheid, più blanda rispetto a quella del Sud Africa. Quella sera il prof. Furia offrì una cena al ristorante alla famiglia Feddersen, per ringraziarli della generosa ospitalità. Domenica 13 ci furono i voli di ritorno, via Johannesburg, per giungere a Varese il 15 aprile 1986.
Ritorno
Nella conferenza stampa conclusiva, il 17 aprile alla Camera di Commercio, presieduta dall’Ass. alla cultura Salvatore Caminiti, così il prof. Furia presentò la spedizione: Questo viaggio non sarebbe dovuto nascere perché siamo oberati dai debiti per alcuni recenti rinnovi delle attrezzature, ma ci è stato offerto un considerevole aiuto così siamo partiti per l’avventura nell’Africa del Sud Ovest. Nella solitudine di un cielo stellato, dove le stelle sono diamanti in una notte che non ha mai fine, dove la vegetazione è minima e spinosissima, dove le dune sono le più alte del mondo, dove al punto d’incontro del deserto con l’oceano si perdono infinite avventure del pensiero umano, là noi siamo andati per studiare la cometa di Halley e portare un messaggio di pace.
Reportage fotografico della spedizione di Paolo Battaini.